Bosnia-Italia, l’amichevole che segnò la fine dell’era Sacchi

Italia, quell'amichevole in Bosnia che segnò la fine dell'era Sacchi
Italia, quell’amichevole in Bosnia che segnò la fine dell’era Sacchi

“Siamo venuti qui per aiutare un paese in difficoltà. Ci siamo riusciti: missione compiuta, fino in fondo”. L’allora presidente del CONI Mario Pescante ricordava che il calcio è più di un gioco, che a volte esserci è già una grande vittoria. Parlava così dopo l’amichevole di Sarajevo del 6 novembre 1996. Intorno allo stadio Kosevo c’erano ancora le croci, le memorie di dolore della guerra. Si giocò di pomeriggio, fischio d’inizio alle 13.30 perché manca l’illuminazione, e per qualche ora si sono sentiti i rumori di una partita di pallone. La Bosnia ha vinto 2-1, l’Italia resta la prima nazionale ad essere scesa in campo dove prima si sparava. E dopo 23 anni torna in Bosnia, con la qualificazione per l’Europeo 2020 già in tasca. “Giocare a Sarajevo è molto importante perché significa che in una terra dilaniata da quattro anni di guerra si sta tornando alla normalità. Vogliamo dare un po’ di serenità a questa gente” ha detto alla vigilia Arrigo Sacchi: non sa ancora che dopo quella partita non sarà più il ct della nazionale.

La vigilia di Bosnia-Italia

L’Italia si presenta con 400 palloni, 60 completi da calcio, 50 divise da arbitri, 300 abiti Pignatelli per la Federazione bosniaca. I calciatori visitano i bambini dell’ospedale pediatrico Kosevo, lasciano 400 astucci, 3000 quaderni, 4000 confezioni di merendine e biscotti. Proprio i soldati italiani avevano favorito la riunificazione di Sarajevo e il ritiro delle truppe serbe dal quartiere di Grbavica a marzo di quel 1996.

Ma non c’è unione nemmeno nella Federazione italiana. A Sarajevo non c’è l’ex presidente Matarrese in tribuna. In campo invece non c’è Costacurta: debutta Padalino, al centro della difesa insieme a Torricelli. Non ci sono giocatori di Juventus, Inter e Vicenza, che devono giocare la ripetizione del terzo turno di Coppa Italia: solo per quella atagione, infatti, si è tentato un esperimento ripreso dalla FA Cup inglese.

La Bosnia è allenata da Muzurović, un ex terzino che a Sarajevo vinse un campionato jugoslavo nel 1967, e promette che la sua nazionale non si chiuderà in difesa. All’ingresso in campo, sul prato rifatto da poco, l’emozione si sente. Sulle tribune ci sono 40 mila spettatori che si aspettavano di vedere la stella “Meho” Kodro, che per una stagione ha indossato anche la maglia numero 9 del Barcellona prima dell’arrivo di Ronaldo. Sta giocando nel Tenerife, che non lo libera per la partita. Ma in tanti sugli spalti  È al Tenerife nel 1996-97 e il club non l’ha liberato per l’amichevole. Non c’è nemmeno il regista Bazdarevic, capitano della squadra.

La partita

La differenza di motivazioni si sente. Per la Bosnia non è solo una partita di calcio. E’ vita, è affermazione di una normalità più forte delle bombe. E’ da questi segnali che passa il ritorno alla vita, alla speranza. La Bosnia passa subito in vantaggio. Toldo respinge la conclusione di Elvir Baljić, allora attaccante del Bursaspor che sarebbe poi arrivato al Real Madrid, ma Hasan Salihamidžić, quel giorno solo una promettente ala dell’Amburgo, segna la rete dell’1-0.

L’Italia, un po’ sfilacciata, riesce comunque a pareggiare con Chiesa su cross di Zola, uno dei migliori in campo in una partita in cui gli azzurri lasciano poche tracce da ricordare in campo. Inutile lamentarsi anche per il rigore che l’arbitro austriaco Sedlachek nega a Chiesa. Gli azzurri sfiorano la seconda rete, salvataggio sulla linea di Besirevic, ma dietro ballano ad ogni affondo. Così, sul lancio di Salihamidzic, la difesa azzurra è scoperta: Elvir Bolić, prima di Dzeko il cannoniere più prolifico della della nazionale, salta Toldo e regala la vittoria.

“Penso alle aspettative deluse dei nostri soldati. I nostri giocatori avevano il dovere di dare il massimo” spiega Sacchi, sempre più solo. La Federazione cambierà presidente un mese dopo. Arriverà Luciano Nizzola che, dopo la partita, lascia intendere la volontà di un cambio di passo. “Non possiamo permetterci di fallire la qualificazione ai Mondiali di Francia ’98. La questione del contratto di Sacchi, di fronte alla nostra partecipazione ai mondiali francesi diventa secondaria. Sarebbe assurdo se una Federazione dovesse sentirsi ostaggio di un contratto”. I tempi per l’addio sono maturi. L’Italia darà il benvenuto in nazionale maggiore a Cesare Maldini.

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