Serie A, match a porte chiuse: chi potrà esserci e fattori contagio

Serie A, per salvare la stagione prende sempre più corpo l’ipotesi di giocare le rimanenti partite a porte chiuse. Se, però, si vogliono evitare i contagi, potrebbe non essere la scelta più idonea.

Giocare senza pubblico sarebbe ugualmente rischioso
Giocare senza pubblico sarebbe ugualmente rischioso

Progetti, rischi e probabilità. Questi sono i tre fattori principali su cui la Serie A e gli altri campionati sospesi in giro per l’Europa stanno discutendo nelle ultime settimane, riprendere il campionato sembra essere una priorità ma ancor prima (indubbiamente) viene la salute degli atleti. Per questo la possibilità che si giochino le restanti partite delle competizioni a porte chiuse è altamente probabile. Anzi, forse, è l’unica cosa definitiva in questo bailamme.

Se l’UEFA prova a tranquillizzare tutti, qualche dubbio – guardando alla Serie A e per esteso poi anche altrove – resta: il problema, infatti, se l’obiettivo principe è quello di arginare il possibile contagio da Coronavirus, non è soltanto il pubblico. Eliminare, in media, 80.000 persone potenziali per ciascun match (valore approssimativo che può cambiare in base alla capienza degli impianti) resta sicuramente un incentivo per la ripresa delle attività ma non basta. Non ci sarebbe – qualora si decidesse di ripartire con i match – la sicurezza adeguata poiché le persone presenti in uno stadio (escluse le tifoserie) sarebbero comunque tante.

Serie A, giocare a porte chiuse potrebbe non bastare: i fattori di rischio

Riprendere a giocare a porte chiuse potrebbe essere ugualmente un problema
Riprendere a giocare a porte chiuse potrebbe essere ugualmente un problema

Secondo le ultime stime fatte, nel corso di una partita la mole di persone che si sposta dentro uno stadio ammonterebbe a circa 600 elementi (a compagine): poniamo il caso di Juventus-Inter (recuperata l’8 marzo scorso e giocata senza pubblico). All’Allianz Stadium di Torino fra squadre, incluse le riserve, fotografi, giornalisti, social media manager, organi di stampa, arbitri medici sociali, team anti-doping e addetti alla sicurezza ci sarebbero state circa 1200 persone. Un quantitativo troppo alto per poter scongiurare eventuali contagi.

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Ultima, ma non per importanza, la questione distanziamento sociale: gli spogliatoi degli impianti non permettono di rispettare al meglio tale precetto, per non parlare poi dei contatti sul campo da gioco, inoltre persiste il nodo VAR. La tecnologia, croce e delizia degli ultimi campionati, è attuabile grazie all’apporto di alcuni tecnici che monitorano le azioni da un furgone sito fuori ogni stadio. Lo spazio è angusto, non all’altezza della situazione emergenziale in cui il nostro Paese verte: in attesa della VAR room nazionale, che dovrebbe debuttare l’anno venturo, si potrebbe fare a meno dell’ausilio per evitare futili assembramenti. Quest’ultimo aspetto potrebbe far indispettire qualcuno poiché, almeno in Italia, si continuerebbe a insinuare l’ipotesi del “campionato falsato” dato che una parte di stagione ha visto il VAR protagonista inconsapevole e l’altra (potenzialmente) no.

Siamo dinnanzi ad uno stallo. L’ennesimo in queste settimane complicate che viaggiano su due diversi fronti: quello medico e quello economico-sociale. Il calcio è una risorsa, un valore aggiunto in tempi relativamente tranquilli. Bisogna valutare l’essenzialità di questo sport in momenti particolari come può essere un’emergenza inimmaginabile al pari di quella da Coronavirus. È sempre una questione di progetti, rischi e probabilità variabili dipendenti che rischiano, stavolta sì, di far saltare il banco e – quindi – l’equazione finale.

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