Nazionale, il fallimento parte da lontano: gli stranieri non c’entrano

La presenza degli stranieri è stata indicata come una delle cause del fallimento della Nazionale. Ma i problemi del nostro calcio partono da lontano

La sconfitta contro la Macedonia, la seconda mancata qualificazione consecutiva ai Mondiali, ha aperto il processo al calcio in Italia. Niente di nuovo, era già successo dopo Italia-Svezia cinque anni fa, era successo nel 1958 dopo il 2-3 in Irlanda del Nord che ci costò costò la prima eliminazione dalla fase finale dei Mondiali. Successe anche dopo il clamoroso 0-1 contro la Corea del Nord ai Mondiali del 1966. Allora, per reazione, l’Italia decise di chiudere le frontiere agli stranieri permettendo ai club di mantenere in rosa quelli attualmente tesserati o di acquistarne ma solo da un’altra formazione italiana.

Nazionale, il fallimento parte da lontano: gli stranieri in Serie A non c'entrano
Nazionale, il fallimento parte da lontano: gli stranieri in Serie A non c’entrano (Lapresse)

Gli stranieri sono al centro dell’attenzione anche adesso. Da più parti si moltiplicano le considerazioni sul fatto che siano troppi, che abbiano troppo spazio. Se ne è lamentato anche Paolo Nicolato, il ct della Nazionale Under 21 tornando sul tema dei vivai italiani sempre più poveri di talenti pronti a confrontarsi a livello internazionale.

Dal punto di vista matematico, Nicolato non ha torto. In Italia, secondo il sito specializzato Transfermarkt, giocano 343 calciatori stranieri rispetto ai 329 della Premier League (anche se in Inghilterra rappresentano una percentuale più alta dei tesserati), i 297 della Ligue 1 francese, i 274 della Bundesliga tedesca, 225 della Liga spagnola.

Gli stranieri in Serie A

In Serie A, secondo il CIES, gli stranieri hanno decisamente più spazio rispetto agli altri quattro grandi campionati europei. A gennaio, sottolineava il report mensile dell’osservatorio svizzero, gli stranieri avevano disputato il 64% di tutti i minuti disponibili in Serie A. Nessun altro dei campionati del Big 5, le cinque principali leghe del vecchio Continente, arriva alla soglia del 60%.

Il problema non è solo aritmetico. L’autarchia non è un modello che funziona, chiudersi anche parzialmente al confronto internazionale non funziona. Lo dimostrano Russia e Turchia, che provarono a utilizzare la leva delle maggiori restrizioni agli stranieri per aumentare il livello del calcio e della selezione nazionale. Ma hanno ottenuto in gran parte un aumento dei cartellini dei giocatori, e una ridotta competitività.

Nazionale, un problema di qualità

In Italia, il livello dei giocatori si è indiscutibilmente abbassato. Il rendimento della nazionale di Mancini, che ha segnato sei gol in sei partite dopo l’Europeo ma cinque solo contro la Lituania, è un sintomo. O meglio, un’epifania.

E’ la rivelazione di un campionato diventato negli ultimi anni più competitivo ma livellato verso il basso, in termini di qualità dell’interpretazione individuale. Basti vedere i podi delle classifiche finali del Pallone d’Oro negli anni Duemila.

Tra il 2000 e il 2010 la Serie A ha festeggiato due primi posti (Nedved 2003 e Shevchenko 2004)… e mezzo (Cannavaro 2006, passato dalla Juve al Real Madrid a stagione in corso), più un due secondi e due terzi posti. Da allora, solo Cristiano Ronaldo tra tutti i calciatori passati in Serie A è stato votato abbastanza da salire sul podio della classifica finale.

Proprio Cristiano Ronaldo può essere l’esempio giusto per capire come mai la presenza degli stranieri non è di per sé il problema. Nonostante il Decreto Crescita che ha reso l’investimento su uno straniero più conveniente dell’investimento su un italiano, a parità di cifra spesa per il cartellino e l’ingaggio.

Intanto, perché il calcio che ci piaccia o no partecipa della globalizzazione. Poi perché il confronto arricchisce, e portare in squadra uno straniero di alto valore può migliorare tutto il resto della squadra.

Dalla Serie A alla Nazionale, lo specchio dell’Italia

Dalla Serie A alla Nazionale, lo specchio dell'Italia
Dalla Serie A alla Nazionale, lo specchio dell’Italia (Lapresse)

E’ la selezione, anche nei settori giovanili, che lascia a desiderare. E’ la proliferazione delle scelte dall’orizzonte che non paga. Si rinuncia alla costruzione del talento, che richiede visione, individuazione delle qualità e delle prospettive, pazienza perché possa sbocciare.

Invece, dalla Serie A in giù, si preferisce andare su colpi più o meno sicuri, che non sempre finiscono per mantenere le promesse. E’ anche questo un sintomo di un campionato specchio di un Paese che a livello di classe dirigente sembra costantemente preferire la difesa dello status quo o la ricerca di benefici immediati al rischio che ogni costruzione di ampio respiro comporta.

E questo si riflette anche in una Serie A eccessivamente dipendente dai diritti tv, che ha finito per assegnare i diritti del campionato semplicemente a chi offriva di più, indipendentemente dalle conseguenze e dai dubbi sugli aspetti tecnici di una trasmissione solo in streaming.

Stadi, competitività, equilibrio: cosa serve per ripartire

E’ in fondo lo stesso motivo che porta le società a cercare plusvalenze, che sono l’unica fonte rilevante di ricavi per i club indipendenti dai risultati sportivi per la maggior parte delle società italiane. Inevitabile quando non si possiedono stadi di proprietà e non si è sviluppata una strategia commerciale tale da moltiplicare gli accordi locali, nazionali e internazionali.

Ridurre il numero di squadre in Serie A, passando almeno a 18 squadre, potrebbe restituire la competitività. Altrimenti, servirebbe ridisegnare i meccanismi di distribuzione delle risorse significative, diritti tv in primis.

Ma solo un’apertura al futuro che riesca a superare l’effetto nostalgia, anche per quanto riguarda i nuovi stadi, e una visione di lungo periodo in grado di incidere a tutti i livelli possono permettere all’Italia di recuperare qualità.

E’ quello che hanno fatto la Francia, dopo aver mancato i Mondiali del 1990 e del 1994, la Germania dopo il 2000, e prima l’Inghilterra o l’Olanda. L’Italia ha già perso cinque anni e una grande occasione, dopo il 2017. Non c’è tempo da perdere.